Notiziario di Giovedì 19 Giugno 2008
La cronaca in apertura del nostro giornale. La squadra mobile di Caltanissetta ha scoperto, a Gela, una organizzazione di giovani stiddari che gestiva il racket delle estorsioni. Numerose le intimidazioni e i danneggiamenti per gli imprenditori che non sottostavano alla legge del racket del pizzo. Sette le ordinanze di custodia, cinque delle quali notificate in carcere a persone già detenute. A tenere le fila erano padre e figlio, affiliati al clan degli stiddari. Alcuni devono rispondere anche del reato di strage.
Aveva riunito attorno a sé un gruppo di giovani, poco più che ventenni, che usava per il traffico di droga, le estorsioni e le intimidazioni ai commercianti e agli imprenditori che non volevano pagare il pizzo. Paolo Di Maggio, ritenuto dagli inquirenti il capo del clan di Stiddari, che per due anni ha controllato gli affari illeciti a Gela, poteva contare su un esercito di fedelissimi tra i quali c'era il figlio Salvatore, di 23 anni. E' uno dei particolari emersi dall'operazione denominata “Orpheus” della Mobile di Caltanissetta che oggi ha portato in carcere sette persone accusate, a vario titolo, di mafia, estorsione e traffico di droga. A cinque indagati, già detenuti, la misura cautelare è stata notificata in carcere, tra questi i Di Maggio. Due, liberi, sono finiti in manette all'alba. Decine gli attentati incendiari e le intimidazioni commesse dal clan per piegare i commercianti riottosi. Molte vittime, poi interrogate dagli investigatori, hanno ammesso le richieste estorsive di pagamenti di denaro. L'unico imprenditore, titolare di pub, che ha continuato a negare le pressioni del racket, è stato indagato per favoreggiamento. All'indagine hanno contribuito anche le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia gelesi. E per convincere una delle vittime a pagare il pizzo, i boss gelesi rischiarono di compiere una strage. Dalle indagini, infatti, è emerso che nel 2005 tre dei sette affiliati alla cosca della Stidda, arrestati, Salvatore Di Maggio, Nicola Liparoti e un giovane, all'epoca minorenne, entrarono nell'appartamento della vittima, diedero fuoco ai mobili e bloccarono con una spranga la porta di ingresso dello stabile per bloccare eventuali fughe. Nel palazzo vivevano tre nuclei familiari che riuscirono ad abbandonare l'immobile invaso dal fumo, solo buttando giù il portone a spallate. Tre dei sette arrestati per questo episodio rispondono anche del reato di strage. Il giorno successivo all'attentato sul muro dello stabile venne ritrovata la scritta "Chi è qui è morto".