Notiziario di Giovedì 4 Novembre 2004
Tradito dai suoi stessi pizzini, con i quali raccomandava ai boss le imprese a cui far aggiudicare gli appalti e a chi imporre il pizzo. E così, per la prima volta, nel palmares di Bernardo Provenzano, la primula rossa di Cosa Nostra, latitante da 41 anni, spunta l’accusa di estorsione. Ad inchiodarlo, i bigliettini trovati il 14 aprile del 2002 nel covo in cui si nascondeva di Nino Giuffrè, boss di Caccamo, ritenuto il braccio destro del capomafia, oggi collaboratore di giustizia. E così Provenzano figura tra i destinatari delle sette ordinanze di custodia dell’operazione Vulcano dei Carabinieri del Ros di Palermo. Ordinanza, ovviamente non notificata, assieme a quella di un altro super latitante, Salvatore Lo Piccolo, ritenuto molto in vista nella cupola mafiosa. Oltre a Provenzano e Lo Piccolo, i provvedimenti cautelari, emessi dal Gip Gioacchino Scaduto, su proposta dei PM della DDA, Sergio Lari, Michele Prestipino e Lia Sava, riguardano Benedetto Spera, detenuto, Giovanni Spera, di Belmonte Mezzagno, Salvatore Stanfa, zio di Giuffrè, Michele Vitale di Partinico e Domenico Virga di Gangi, detenuto. Un’inchiesta nata dalla collaborazione di Giuffrè, un fatto, ha detto il procuratore capo di Palermo, Pietro Grasso, in conferenza stampa, che dimostra l’utilità dei pentiti. E intanto la procura di Palermo è al lavoro per formulare il capo di imputazione con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra contro il prefetto Mario Mori, direttore del Sisde ed ex responsabile del Ros e del tenente colonnello Sergio De Caprio, il leggendario Capitano Ultimo, due dei protagonisti della cattura di Totò Riina. L’inchiesta riguarda la mancata perquisizione del covo del boss, la mattina del suo arresto, il 15 gennaio 93. I magistrati hanno nove giorni di tempo per formulare il capo di imputazione. Secondo il gip Vincenzina Massa, che ha disposto l'imputazione coatta, ci sarebbe stata una trattativa che si sarebbe conclusa con la consegna di Riina ai militari del Ros in cambio della mancata irruzione nella villa con piscina del boss, dove, secondo quanto affermano alcuni pentiti, il capomafia nascondeva documenti. Venne dato il tempo alla moglie e ai figli di Riina di lasciare l'abitazione e ad una squadra di mafiosi di ripulire il covo. I carabinieri arrivarono dopo 19 giorni, quando non vi era più nulla.